È l’ultima di nove fratelli. La sua è una famiglia di contadini, e anche Bruna, come i suoi genitori, lavora nei campi. All’interno dell’Azione cattolica matura la sua vocazione religiosa. Dopo l’arrivo di don Giuseppe Lunari nel suo paese, Bruna collabora con questi alla nascita di una nuova cellula di Ac e diventa Delegata beniamine, partecipando attivamente ai corsi di formazione. Non tralascia la santa messa anche nei giorni feriali, a volte andando fino a Sassuolo, dove la messa viene celebrata in un orario più adatto alle sue esigenze. Ama leggere le vite dei santi, in particolare santa Teresina di cui parla alle bambine e alle ragazze dell’Azione cattolica.
La vita le regala di tutto e di più: bellezza ed eleganza, buonumore e dolcezza, allegria e tanta pace. E anche l’amore, che sboccia sui diciassette anni, ma che sembra non soddisfare appieno la sua ricerca di un più grande amore. Come neppure la realizza la maternità adottiva di ben sei figli di cui a diciotto anni comincia a prendersi cura, in conseguenza della morte quasi contemporanea di due sue giovani cognate. In realtà, nel cuore di Bruna sta nascendo la vocazione religiosa, che la famiglia non contrasta in nome di quella fede solida in cui i figli sono stati educati e che lei riesce ad appagare a ventidue anni, entrando tra le suore terziarie francescane di sant’Onofrio a Rimini.
Per questo, a ventitré anni, parte per Rimini con l’intenzione di consacrarsi al Signore.
Nel 1941 veste l’abito delle suore Terziarie francescane di sant’Onofrio (oggi Francescane missionarie di Cristo).
Dopo il noviziato e i primi voti, con il nuovo nome di suor Maria Rosa si tuffa nella vita attiva della comunità di Sassuolo, proprio negli anni in cui infuria la guerra che semina distruzione e morte. «Vengo dalla campagna, sono abituata a lavorare», risponde a chi le suggerisce di risparmiarsi un po’ nella sua frenetica attività di apostolato. La svolta della sua vita arriva nel 1945, non solo perché è trasferita a Ferrara, ma soprattutto perché in quell’anno si manifestano in lei i sintomi della tubercolosi, che a novembre le spalancano le porte del sanatorio. Ha ventotto anni, solo cinque dei quali passati in convento; gliene restano altrettanti da vivere, ma tutti nella scomoda e dolorosa condizione di malata cronica, in una clausura non voluta, in un isolamento che tanto contrasta con il suo carattere, in una monotonia che rischia di tingere incessantemente di grigio i giorni, le settimane e gli anni. «Ho iniziato la mia vita sanatoriale piangendo, ma ho chiesto al buon Dio di terminarla cantando le sue misericordie». […] «Sia benedetto il Signore che mi concede la grazia di un pochino della sua santa croce e mi dà la grande grazia di portarla nella pace… Come dono, non come peso».
Trascorre tutti questi anni quasi interamente nei sanatori di varie città, con rare uscite nella vita normale delle suore. Dai sanatori invia molte lettere (quasi duemila) a consorelle, sacerdoti, laici, ammalati, esortandoli ad essere coraggiosi testimoni cristiani.
«Lo dico in un momento in cui non posso tradire… Quello che conta è amare il Signore. Sono felice perché muoio nell’amore, sono felice perché amo tutti», esclama il primo dicembre 1972, poco prima di chiudere gli occhi per sempre.
È stata beatificata il 29 aprile 2007, a Rimini.